Ancora qui, sull’eremo. Stavolta solo, in un giorno qualsiasi e a mesi dall’ultima volta ch’era successo. Piantato immobile su una zolla a sentirsi naturale prolungamento delle radici che innervano il terreno del ‘Galeotti’. Un campo di calcio e basta per il forestiero (comprensibile) e per il superficiale; per altri – presente -, trincea del cuore. Senza partita, senza compagnia, senza pretese. Allora perché venirci? Per nostalgia, semplicemente. Ti può mancare una persona, può mancarti un momento e, allo stesso modo, puoi sentire fortissimo il richiamo di un luogo. Ognuno degli elementi vale l’altro, è trino, cioè richiama, e quindi contiene, gli altri due. Ma torniamo in tema.
Dicevamo. Se avessi il vizio del fumo adesso m’accenderei una paglia o, se avessi una bottiglia berrei un goccio. Siccome niente di tutto questo, continuo a fissare il campo. A interrogarlo quasi, su fatti che lo riguardano (lui, ma pure me che ogni due settimane l’ho abitato). Io e il ‘Galeotti’, nessun’altro. Senza chissà cosa da dirgli, ripercorrere gli ultimi dieci mesi dell’anno. Riavvolgere il nastro, da questa vedetta rivivere fatti e cose nel giro più o meno stretto dell’orizzonte. Precisamente quello di un paesino abbracciato dalle montagne, ché questo siamo: un mondo piccolissimo dentro uno piccolo per definizione.
Da dove iniziare, allora? Da dove ci eravamo lasciati, cioè dal precedente campionato poi interrotto per via di un subdolo virus che uccide (può dare il colpo di grazia, certamente), e quindi spaventa, ma che, anziché unire le genti disgraziate d’ogni dove, come in altre innumerevoli occasioni anche meno drammatiche, le divide ancor più di quanto già non lo siano. E vabbè.
Al sodo, comunque. C’è una partita, tra tutte, meritevole di menzione: gennaio scorso, Semprevisa – Casilina 5:0. Nessun appuntamento con la storia, nessun record o risultato decisivo ai fini della classifica, niente di tutta questa roba da freddi analisti. L’opposto: un gesto caldo, passionale, romanticamente eversivo. Uno dei nostri che fa doppietta. E capirai!, protesta l’impaziente. Momento. Doppietta in rovesciata. Indubbiamente il colpo più bello del calcio, quello che ne riassume essenza, magia, sogno. La dinamica. Porta sotto Capreo. Da un’azione manovrata sulla destra un pallone non ricordo se crossato o calciato in porta viene sporcato tanto da farlo alzare a campanile. Sulla traiettoria discendente sul primo palo, tra dischetto e area piccola, si piazza Coluzzi già col film in testa. Al calar del cuoio il nostro ha tutto il tempo di catapultarsi nel punto più alto all’impatto e scaraventare in gol. Applausi. Come dicono quelli della rivista calcistica ‘Panenka’: “Sin 10 no hay fútbol”. Ma il meglio è di là da venire. Passano una manciata di minuti e ci risiamo. Col numero stavolta reso ancora più complicato dalla velocità dell’azione. Siamo sulla destra da dove il cross, tesissimo, è destinato al secondo palo dopo avere attraversato tutta l’area. Appostato come un falco sulla preda, Coluzzi ha massimo mezzo secondo per eseguire quello che ha in mente. Cioè, avvitarsi volante nell’aere per issarsi su una nuvola, rannicchiarsi, colpire, ricadere e, nel frattempo, sentire, prima ancora di vedere, il pallone scuotere la rete del portiere scavezzato all’indietro. La gente sugli spalti resta a bocca aperta e applaude, applaude e resta a bocca aperta anche minuti dopo che tutto è finito e il gioco ripreso. Aveva ragione Eduardo Galeano quando diceva che siamo mendicanti di bellezza che vanno alla partita col capello in mano a chiedere qualcosa, azione o gol poco importa, di tanto pregevole da lasciare una luce negli occhi. Come un lampo nel buio.

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